prima pagina pagina precedente


RICORDI
Bombardamenti
Fausta Casati Travi sul  libro "Giocavamo alla guerra" - Memorie di giovani monzesi


La dichiarazione di guerra sul diario di un bambino

La dichiarazione di guerra sul diario di un bambino

Il 10 giugno 1940 l'Italia si ferma per ascoltare le parole che il Duce proclamerà al popolo italiano.
In casa mia non c e ancora la radio, ma una famiglia dello stabile accanto ci permette di ascoltare il discorso alzando il volume e tenendo aperte le finestre.
Mi sembrava strana quella voce cosi imponente, ma era una dichiarazione di guerra, una guerra che avrebbe portato tanto dolore e distruzione.
Questa mia sensazione era in netto contrasto con il ricordo che avevo del mio primo incontro col Duce. Ero anche bambina, quando venne a Monza per inaugurare la scuola elementare intitolata a Rosa Maltoni. Nel grande salone primeggiava il quadro raffigurante la sua mamma e vicino a quel quadro c'ero io, vestita con la divisa delle "piccole italiane". quando Mussolini si avvicinò al quadro depose una rosa accompagnando questo gesto d'amore con una lacrima. In quel momento mi sono resa conto dell'umanità che caratterizza ogni persona.
Ricordo quando il babbo ci raccontava gli episodi della prima guerra mondiale, una guerra di trincea di cui noi avevamo imparato a memoria tutti i nomi dei luoghi da lui percorsi:
dall'Isonzo a Caporetto, dalla Bainsizza a Tolmino, dove fu gravemente ferito.
Ma il ricordo della guerra che oggi voglio raccontare, inizia subito con i bombardamenti. Dal cielo cadevano le bombe, sganciate talvolta sbagliando obbiettivo e tutti correvano in rifugi improvvisati al momento.
La prima notte l'allarme ci colse con spavento. Il babbo ci fece scendere al piano rialzato sotto l'arcata delle porte, mentre la
cara nonna non voleva seguirci e non si rendeva conto del pericolo.
quelle sirene di allarme e di cessato pericolo mi accompagnarono con angoscia nei primi anni del mio insegnamento nel collegio maschile Villoresi a Monza.
La vita diventava sempre più difficile, i problemi si moltiplicavano ed il cibo scarseggiava.
I proclami di guerra, fino al trentesimo bollettino,erano da me raccolti ogni giorno in un quaderno scolastico, quaderno che ancora oggi posseggo.
Ben presto il collegio San Giuseppe si trasferì a Fabbrica Durini, e così con la sorella maggiore che insegnava nel ginnasio, lasciai con nostalgia Monza.
Ricordo la notte in cui Milano venne bombardata. Il Rettore ci chiamò per osservare, da un vetrata del salone principale, quel fuoco ininterrotto di bombe che sembrava non cessasse mai, ed il nostro pensiero si rivolse subito ai nostri cari.
In quei tristi giorni dovevo insegnare nella stessa aula e nello stesso momento, a ragazzi che andavano dalla prima alla quarta elementare.
Il signore voleva mettere alla prova le mie capacità.
I tedeschi, dopo poco tempo, ci fecero sfollare da quel grande edificio ed il conte Durini ci offrì le stalle del suo castello come sede alternativa. Essendo, però, un collegio maschile, trovarono una sistemazione per me e mia sorella nel paese: una stanza sopra un fienile. In quel posto, le prime notti, ero terrorizzata dal continuo entrare ed uscire delle lucciole. Associavo, infatti, il loro bagliore intermittente a quello della controaerea. Cercammo poi una camera per i genitori ed i fratelli rimasti in città, ma il babbo non volle lasciare Monza.
quando sembrava che la guerra stesse per finire, tornammo a casa, anche se poi la guerra continuò ancora per un anno. Io ebbi la fortuna di essere accolta come maestra all'Istituto Zaccaria di Milano.

L'abbonamento ATM di Fausta Casati

L'abbonamento ATM di Fausta Casati
Ogni mattina partivo molto presto da casa, per il timore di non raggiungere la scuola per tempo, in previsione di allarmi e bombardamenti. Dopo una breve preghiera nella chiesa degli Artigianelli, prendevo da largo Mazzini la famosa tratta del tram
Monza-Milano, per poi continuare con un altro mezzo fino al centro della città.
Conservo ancora oggi la tessera dell'abbonamento del tram, con anche gli orari di andata e ritorno.
La cartella che portavo ogni giorno era sempre molto pesante perché volevo ornare con dei collage i quaderni di tutti i ragazzi, in modo tale che avessero un momento lieto nonostante il periodo difficile.
Il tram era sempre affollato, soprattutto dai lavoratori delle gran i fabbriche di Sesto San Giovanni. Fabbriche che erano tra gli obiettivi dei bombardamenti. quando suonava l'allarme, si doveva abbandonare il tram e subito allontanarsi, perché ogni convoglio in movimento rischiava di essere mitragliato. L'ultimo anno di guerra fu veramente il più disastroso. Mamma e papà non sapevano come sfamarci; io pensavo a loro quando a mezzogiorno la mensa della scuola mi offriva qualche pane in più, a volte riuscivo a portarne a casa per i miei fratelli. quando l'olio mancava ci avevano insegnato a mettere semi di lino in una bottiglia con acqua e poi agitare il tutto. Usciva un miscuglio gelatinoso che usavamo come olio. Un altro cibo che ricordo di quel periodo era il formaggio Roma, che veniva venduto in cassette di legno ed aveva una pasta bianca compatta un po' simile al taleggio. Il pane era scuro e lo chiamavamo pane nero.
Chi poteva lasciare la città era più sicuro di sopravvivere, ma le famiglie rimanevano così disunite.
Le scuole erano appena iniziate, ma la mattina del 20 ottobre 1944 rimase memorabile. Provai un grande spavento che però ebbe l'effetto di aumentare il mio coraggio. Una scuola elementare di Gorla venne bombardata per sbaglio. L'allarme suonò dopo che gli aerei avevano già sorvolato la città ed i miei ragazzi di seconda elementare intuirono il pericolo, corsero fuori dall'aula a precipizio, giunsero nell'atrio dove poterono riabbracciare le loro mamme già accorse per portarli al sicuro. La notizia si diffuse ben presto in tutta la città. Un padre barnabita mi invitò a non tornare a Monza, ma come potevo lasciare i miei cari con il timore che la scuola bombardata fosse la mia? Mi avviai verso piazzale Loreto, ma la strada fu lunga a causa dei
ripetuti allarmi che mi costringevano ad entrare in continuazione nei rifugi delle case che si affacciavano sulla via. All'interno di ogni rifugio c'era una comunità di persone diverse con la propria particolare situazione, ed io continuavo ad essere catapultata in queste realtà differenti. Ogni volta che si usciva dai rifugi, si guardava in alto ed ognuno pensava: “Siamo ancora vivi!". E subito si proseguiva per la propria direzione, allontanandosi dalle persone che fino a poco prima erano degli sconosciuti e con le quali si erano appena condivisi quei momenti di terrore. Ancora oggi, alcune antiche case, hanno vicino al portone principale la freccia bianca e nera che indicava la presenza di un rifugio all'interno. Sembrava ormai un' odissea questo mio tentativo di avvicinarmi a Monza. Avevo i piedi doloranti per le scarpe di pelle cruda che avevo pagato a poco prezzo. Ma tutte queste preoccupazioni sparirono quando vidi giungere le camionette dell'Umpa (se ricordo bene il nome) che trasportavano i cadaveri di molti bimbi. Rimasi veramente sconvolta.
Ero disposta a raggiungere Monza anche a piedi, ma la strada era interrotta perché nessuno poteva passare per Gorla. I telefoni non funzionavano e le linee tramviarie e ferroviarie erano ferme. Allora mi feci forza e 4ecisi di raggiungere la stazione centrale, dove l'ultimo treno per Monza sarebbe partito alle 20.00 di quella sera.
In tutta questa confusione, io ero sempre da sola. Da sola dovevo affrontare la situazione, farmi coraggio, decidere cosa fare e dove andare. Ricordo che il solo pensiero fisso che avevo era quello di tornare a casa dai miei cari e questa idea mi diede la forza e la determinazione di andare avanti, anche se dovevo recarmi in luoghi che rischiavano di essere bombardati, come la stazione dei treni.
Le notizie dettagliate della scuola distrutta le raccoglievo man mano che il tempo passava.
Con me, su quel treno merci per Monza, c'erano moltissimi lavoratori. Alcuni erano gli stessi che avevo incontrato quella mattina sul tram. I vagoni erano stipati, sembravamo carne da macello, ma era sempre meglio che rimanere in stazione.
Il treno, con le luci spente, partì molto lentamente e mantenne la stessa velocità per tutto il viaggio, perché tutto quello che si muoveva rischiava di essere mitragliato.
Si giunse a Monza intorno alle 22.00. Ero preoccupata per la strada a piedi che avrei dovuto ancora percorrere al buio, ma in stazione con mia grande gioia trovai il babbo, che abbracciandomi mi disse: eravamo preoccupati perché la notizia giunta a noi non era completa, sapevamo solo che una scuola a Milano era stata bombardata. Domani rimarrai a casa." Ma come potevo lasciare i miei scolari? Certamente non ubbidii, anche sapendo di dare al babbo una grande preoccupazione. La scuola di Gorla non l'ho più dimenticata; fa ormai parte della mia vita.


25 APRILE - GIORNO DELLA LIBERAZIONE

Si andava parlando da mesi di questo giorno, in cui sarebbe accaduto qualcosa di importante, senza sapere cosa. Come al solito mi trovavo a Milano all'Istituto Zaccaria. Verso le ore 10.00 del mattino, padre Marinelli mi avverti di lasciare uscire i ragazzi e mi invitò gentilmente a non tornare a casa. Ormai tutti erano a conoscenza di cosa sarebbe accaduto. Le strade di accesso alla città iniziarono a diventare campo di battaglia: i partigiani stavano arrivando a Milano, facendo saltare tutti i posti di blocco.
Chiesi allora alla mamma di un mio scolaro se poteva prestarmi una bicicletta. Me l'avrebbe data, ma solo dopo la telefonata di suo marito. Era un noto avvocato, e si trovava a Palazzo di Giustizia per trattare con l'arcivescovo Cardinale Schuster la resa del Duce e di altri potenti gerarchi. Ma così non fu, l'accordo non si trovò. Così ottenni subito la bicicletta.
Percorsi i viali della città dal centro fino a Loreto, dove già erano iniziate le rappresaglie, con la gente che fuggiva. Non badavo agli spari, ma pedalavo con tutta la forza che avevo in corpo, soprattutto per attraversare Sesto San Giovanni, punto critico perché sapevo che gli operai erano già usciti dalle fabbriche. Mentre attraversavo Sesto sentivo gli spari da tutte le parti e i proiettili che mi fischiavano sopra la testa. Lì decisi che non avrei seguito il viale alberato, che era la strada più diretta, perché vedevo le macchine dei gerarchi in fuga, e avrei invece seguito il percorso del tram dove passavo tutti i giorni. Raggiunsi finalmente la stazione di Monza dove c'erano sessanta vagoni diretti in Germania con merce che i tedeschi avevano intenzione di portare via, bloccati dalla gente accorsa per svuotarli. Alla fine, veramente stremata, giunsi a casa mia, dove la mamma non era al corrente della situazione. Anzi, si meravigliò del mio arrivo in bicicletta. Solo allora, mi resi conto del pericolo che avevo passato.
Dopo una settimana, in una splendida mattina primaverile, presi la bicicletta per riportarla alla famiglia che me l'aveva prestata, persone alle quali va tutta la mia riconoscenza.
Quando conobbi il mio futuro marito, altre notizie si aggiunsero. quel giorno della liberazione il Cardinale aveva pregato i giovani dell'Azione Cattolica di raccogliere i morti per le vie della città, senza distinzione di appartenenza. Tra questi volontari c'era anche mio marito, che aiutò a portare i cadaveri al Cimitero Maggiore.

Fausta Casati Travi


in su pagina precedente

 24 gennaio 2004